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Pisa, 27 dicembre 2006 Ci sono giorni in cui si vorrebbe parlare con quella lingua: «Guai a voi... ».W. aveva curato di avvertire nella lettera al Presidente della Repubblica: «Io amo la vita». Così storpiato dal dolore e dall’artificio, non si vergognava di dirlo con parole da adolescente: «Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli.., l’amico che ti delude». Vita è «il canto del rigogolo, quello del cuculo e la risata del picchio verde maggiore». Non andava preso in parola? Ho sentito in tv una persona peraltro stimabile sospirare: «Noi non abbiamo saputo fargli amare abbastanza la vita». Noi? Lei, io, la società umana, il governo, il suo prossimo? E sua moglie, sua madre, sua sorella, i suoi amici che non l’hanno deluso – tutti falliti nel compito di fargli amare la vita? E dunque W. s’ingannava, mentiva, quando proclamava di amarla? Eppure era così chiaro il suo pensiero. W. amava perdutamente la vita, anche quella della signora in tv e la vostra e la mia: solo non riusciva più ad amare la sua. La denunciava per inadempienza, se ne voleva dimettere come da una contraffazione, in nome della vita che ricordava. In un pensiero come quello – «noi non abbiamo saputo fargliela amare» – c’è un’offesa invadente a lui stesso e ai suoi cari, e c’è la presunzione che la parola magica, «vita», possa trionfare sempre della sofferenza, dell’umiliazione, del tormento, e insomma della morte. La devozione a una tecnica che non ce la fa a preservare la vita, e però riesce a dilazionare a oltranza la morte, proprio da parte di chi invoca lealtà al corso naturale delle cose. Chi si è arrogato il diritto di prescrivere a W. che cosa gli fosse permesso e che cosa negato, ha aggiunto alla prepotenza la superbia di credere di amare la vita più di W., e di potergliene insegnare il segreto. Allontana da me questo calice – era nell’agonia del cuore l’implorazione di uno che diceva di essere lui stesso la vita, e poi accettò che fosse fatta non la sua, ma la volontà del Padre. Da W. avrebbero preteso che non la sua si compisse, ma la volontà di uno Stato, di un Vicariato, di un Comitato. (Allontana da me, Padre, la parola «etica»). Poco fa un Papa aveva chiesto se l’avrebbero guarito, gli hanno detto di no, e ha voluto che lo lasciassero andare alla casa del Padre. W. ha chiesto solo che lo lasciassero andare. Forse quel vecchio Papa non amava abbastanza la vita? Non eravamo riusciti a fargliela amare, noi? Si dice che W. non fosse credente. Ammetterete che non debba esser stato neanche un gran peccatore. Stava lì, a pagar care le sue notti e i suoi giorni. Si batteva da anni per una morte «opportuna»: l’aggettivo che aveva preso in prestito da un credente per augurarsi una buona morte. E’ Natale, siamo più cattivi, ecco tutto. Nel Purgatorio c’è un Buonconte, peccatore, ferito a morte in battaglia a Campaldino, che finisce nel nome di Maria: un angelo di Dio lo prende, e l’angelo d’inferno impreca rabbioso per l’anima che gli è sottratta, «per una lagrimetta». Non so se W. avesse la facoltà del pianto: di parlare no, non avrebbe potuto pronunciare una paroletta. Solo pensarla, forse, o esserne tentato. Il Vicariato romano l’ha escluso. Ha dannato come peccato mortale il desiderio di liberazione di W., e ha tagliato corto col suo ultimo pensiero. Da giorni – c’è stato lo sciopero dei giornali, c’è una Provvidenza – mi chiedo se la Chiesa cattolica abbia misurato lo scandalo che ha mosso nel cuore delle persone. «In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie»... Lo spirito soffia dove vuole: soffiava assai lontano quando è stato compilato un tal comunicato. E com’è sembrata allontanarsi la finestra su una piazza San Pietro messa in competizione con una piazza di quartiere. E gli eminenti personaggi politici? La sequela obbligata dei telegiornali a raccoglierne facce e frasette, respingente sempre, sulla Finanziaria o sul ponte di Messina, era raccapricciante sulla vita e la morte di W. Non dico nemmeno di quelli che hanno chiamato omicidio la morte di W., assassinio l’assistenza di un medico, boia i suoi famigliari e i suoi compagni. W. non ha fatto del male a nessuno. Non ha incitato nessuno a «staccare la spina» di chi, padrone di sè, non lo voglia, né di chi, privato di coscienza, sia curato da un affetto che preferisce tenerlo in vita. Ha chiesto quello che il diritto e la compassione dovevano a gara assicurargli. Gli stava a cuore il nome di eutanasia: ma a quella arrivava dal fatto, mentre la superstizione mascherata da etica vuole assoggettare il fatto al nome, e lo pronuncia come un feticcio. «Ma è eutanasia!» Per alcuni mesi l’Italia ha ascoltato una discussione accanita attorno a una persona che chiedeva, com’è diritto di ciascuno, e per giunta col doloroso assenso dei suoi cari, che gli fosse smessa una terapia divenuta soverchiante, e che gli fosse risparmiata l’atrocità di un trapasso vigile. Invano medici retti avvertivano che avviene ogni giorno negli ospedali e nelle case. Un ex-presidente di Comitato bioetico ha intrattenuto cento volte il pubblico sulla differenza capitale fra la sedazione immediatamente precedente il distacco del ventilatore e la sedazione immediatamente successiva al distacco del ventilatore: immorale e illecita, benché compassionevole, la prima, autorizzata ed etica, benché sadica, la seconda. E ha scritto sull’Avvenire, lamentando l’incomprensibilità della volontà di W. («polisensa», l’ha chiamata): «Possiamo e dobbiamo esigere da parte di tutti, e in primo luogo da noi stessi, un estremo rigore concettuale e lessicale»! Fior di medici, e di magistrati, hanno sostenuto che, essendo il rifiuto di una terapia, da iniziare o già iniziata, un diritto costituzionale della persona, il medico è tenuto a staccare la ventilazione, ma subito dopo, quando intervengono gli spasmi del soffocamento, il medico è tenuto per deontologia a riattaccare il ventilatore. Fior di moralisti hanno discettato sulla differenza incolmabile che separerebbe il mancato inizio di un intervento – come la tracheostomia – dalla sua sospensione una volta che sia in atto, magari, come per W., da tredici anni. E’ la differenza etica che separa un’estremità dall’altra di un interruttore: di qua accendete la luce, di là la spegnete. Ecco, diranno: proprio di questo si tratta, la lotta fra la luce e le tenebre... Notti abbaglianti di lampade devono avere questi moralizzatori. Si dice che le ultime parole di Goethe morente siano state: «Mehr nicht» – non più, basta. Altri obiettano che si sia frainteso, e che avesse invece sussurrato: «Mehr licht» – più luce: che meglio si addirebbe a quell’illuminato. Però il primo senso è più evangelico, e la notte arriva per tutti. Il Papa ha insistito sulla vita sacra dal concepimento al tramonto naturale, ma il tramonto è il punto in cui va via la luce. Il Papa ha messo in guardia da un tempo che vorrebbe l’uomo «sicuro ed autosufficiente artefice del proprio destino, fabbricatore entusiasta di indiscussi successi». Non sono parole che si attagliano ai congegni dai quali W. pregava di esser liberato? Ormai le parole sembrano rivoltabili, come un vecchio soprabito. «Non si scelga la morte credendo di inneggiare alla vita»: l’ha detto il Papa, avrebbe potuto dirlo, tal quale, Marco Pannella. Che cosa ci fosse di naturale nei macchinari che vivevano per W. è difficile dire: benché essi siano anche benedetti, lo siano stati per lui finché li ha voluti, e lo siano per chiunque fino a che li voglia, o altri li vogliano per amore di un loro caro senza più coscienza. La Chiesa ha rinunciato al bando per i suicidi. Se non equivoco, la ragione che ha motivato il cambiamento è a sua volta dubbia e paternalistica, e vuole negare che il suicidio possa mai essere una scelta lucida e nobile: nell’atto del suicidio la persona è spogliata della propria responsabilità. Una tautologia: suicidio e incapacità di intendere e volere coincidono. Sia pure con questa concessione, i suicidi vengono accolti in chiesa, per fortuna, e anche solennemente. Il rifiuto del funerale religioso è di quegli avvenimenti che lasciano sgomenti. Si vuol deridere il non credente che pretende di insegnare alla Chiesa come comportarsi. Io non pretendo niente: tuttavia mi aspetto qualcosa. E quando ciò che succede è così rovinosamente contrario all’aspettativa, bisogna dirlo. Almeno fino a che le chiese cristiane resteranno luoghi in cui si entra e si esce senza dover esibire documenti né dare impronte, in cui si è di casa. Questa volta la chiesa ha chiuso malamente la porta in faccia a una vecchia madre, a una moglie, che avevano bussato, e doveva bastare. Durezza e paura sembrano mescolarsi in questo rigore, e non poteva venirne fuori altro linguaggio che quello sul «defunto dott. Welby». Lo Stato aveva fatto qual cosa di turpe, forzando una donna a star fuori dal recinto della commemorazione di caduti di Nassiryia, perché il suo era un uomo di fatto. Ma appunto dalla Chiesa ci si aspetta di meglio, se non nel dogma o nel canone, nella carità. La Chiesa, in nome della propria cura di anime, sembra esigere l’esclusiva sui corpi. Un paradosso spiegabile solo con l’inveterato pregiudizio secondo cui il peccato ha origine e fine nel corpo. Dal suo centro nella sessualità questa convinzione arriva a maledire il diritto all’autodecisione nella cura della malattia. Quel funerale espulso si chiama addosso lo scandalo di un popolo di fedeli. Ma fosse anche una sola persona a promettere: «Da oggi non metterò più piede in una chiesa» (è la frase che abbiamo sentito, non da uno solo) ce ne sarebbe abbastanza. Si può rallegrarsene, chi si auguri che la Chiesa si screditi e le chiese si vuotino. Io non melo auguro affatto, dunque non me ne rallegro. Mi dispiace. Bisognerebbe essere senza peccato per usare di quella lingua: «Guai a voi... ». E però ci sono giorni in cui si torna a guardare con occhi lucidi, e a vedere che il re è nudo.
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