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Gennaio 2001
MUCCA PAZZA: STORIA DI UNA CATASTROFE ANNUNCIATA…
Intervisto a Mario Valpreda, veterinario, responsabile alla Sanità Pubblica della Regione Piemonte.
(per gentile concessione di "UNA CITTA'")
Possiamo ripercorrere la vicenda della mucca pazza partendo dalla scoperta della malattia?
Nel 1985 nella contea di Kent un veterinario inglese aveva osservato nell’allevamento una vacca che aveva una sindrome neurologica particolare, in quanto alternava a fenomeni di incoordinazione muscolare, fenomeni depressivi e momenti di aggressività. Avendo capito che si trattava di una sindrome neurologica diversa dalle solite, di natura tossica o parassitaria, decise di fare l’autopsia. Scoprirono così che nell’encefalo erano presenti lesioni riferibili a delle encefalopatie peraltro già note. Nel frattempo però si erano riscontrati altri casi, per cui si trattava di un episodio che superava l’occasionalità del momento; la malattia venne definita "encefalopatia spongiforme", perché la caratteristica della lesione era la presenza di vacuoli del cervello, che da un lato spiegavano tutta la sindrome neurologica e dall’altro rendevano l’organo simile ad una spugna. In seguito la malattia ha preso un andamento epidemico, pur senza evidenze di trasmissibilità da animale ad animale. Durante le indagini è emerso il sospetto che ci fosse una causa di origine alimentare, legata al fatto che alla fine degli anni ‘80 era cambiato il modo di produrre le farine di carne. Queste venivano ora prodotte, in gran parte, riciclando gli animali morti e venivano somministrate non solo ai bovini, che sono erbivori, soprattutto alle vacche da latte come integrazione proteica, ma anche e da sempre agli allevamenti avicoli e suinicoli.
Bisogna poi sapere che in Inghilterra era nota da duecento anni una malattia nervosa delle pecore che aveva delle lesioni simili, che si chiamava scrapie, dall’inglese "scrape" che vuol dire prurito, perché uno dei segni nelle pecore infette era questo prurito. Ebbene, proprio le pecore infette -l’Inghilterra ha un forte patrimonio ovino- da sempre costituivano uno degli apporti forti per la produzione di queste farine di carne.
Una delle cause scatenanti potrebbe essere stato un provvedimento della Thatcher preso in periodo di crisi energetica. Può raccontarci?
Inizialmente, le farine di carne venivano prodotte trattando le carcasse animali ad alte temperature nel processo di polverizzazione. In quel periodo però era intervenuta la crisi energetica che aveva comportato, sempre all’insegna del profitto, lo studio di sistemi per risparmiare gasolio. Così si cercò di operare con minor apporto di combustibile e quindi a temperature più basse. E’ stata formulata l’ipotesi che l’agente eziologico della scrapie sopravvivesse a questi bassi trattamenti e che la malattia abbia così oltrepassato la barriera di specie.
Nel frattempo Prusiner, uno scienziato americano, premio Nobel, aveva trovato l’agente eziologico di queste malattie neurologiche identificandolo nel prione (una specie di proteina degenerata capace di trasmettere questo suo percorso "sovversivo", per cui la malattia si trasmette rapidamente da tessuto a tessuto all’interno dello stesso individuo determinando poi questi segni a livello di sistema nervoso).
Ebbene, individuata la causa, immediatamente è scattata la sospensiva di blocco delle farine di carne. Allora, con la legge venne stilata anche una previsione epidemiologica secondo la quale, eliminata la causa, la malattia si sarebbe ridotta inevitabilmente.
All’inizio comunque non c’era alcun sospetto di trasmissione all’uomo; era considerato un problema di sanità animale e neanche particolarmente grave, perché è vero che c’erano tanti episodi, ma individuali, nei singoli allevamenti. Il fatto è che questa malattia ha un lunghissimo periodo di incubazione, per cui non è emerso un immediato rapporto causa-effetto tra il mangiare farine infette e la presenza della malattia nell’animale.
Inoltre, questi prioni si localizzano in quantità molto diversa da tessuto a tessuto; sono localizzati prevalentemente nell’encefalo, nel midollo spinale, nell’ileo, nelle tonsille, negli occhi, per cui nel prodotto finale sono presenti in quantità variabile.
Nel frattempo però la Signora Thatcher aveva anche depotenziato i servizi pubblici e, esaudendo quella che da tempo era una richiesta di tutto il mondo produttivo, aveva introdotto la deregulation, pensando che il mercato potesse essere un regolatore sociale della produzione. Ipotesi clamorosa che in questo caso è risultata dannosissima. Perché fatto il divieto di utilizzo e produzione di queste farine di carne, non c’erano i servizi veterinari che andassero a controllare l’effettivo rispetto del divieto. Così gli allevatori hanno continuato a somministrarle. D’altro canto i produttori, che si trovavano alle prese con una montagna di roba, hanno detto: dobbiamo rimetterci noi? E hanno cominciato ad immettere farine infette sul mercato clandestino, che così hanno girato per tutta l’Europa, anche con triangolazioni strane.
Il problema è che all’inizio, certo tutto il mondo guardava con diffidenza alla Gran Bretagna, però sembrava un problema esclusivamente inglese e poi non essendoci la trasmissione orizzontale, infettiva, si avevano delle cautele, ma relative.
Nel frattempo la Comunità Europea aveva posto dei vincoli alla produzione delle farine di carne che noi in Italia rispettavamo (131° per almeno 20 minuti a tre bar di pressione), per cui si pensava che il prione eventualmente presente nelle farine di carne potesse essere neutralizzato con questi trattamenti. Gli inglesi però non avevano rispettato questi vincoli. Così si è arrivati alla prima emergenza nel 1994, quando il governo italiano ha proibito l’impiego delle farine di carne nei bovini, nei ruminanti.
Il caso è ritornato clamorosamente a galla nel 1996, quando sono stati denunciati i primi casi di persone colpite dalla sindrome "mucca pazza"…
Nel 1996 il sottosegretario alla sanità inglese ha denunciato una quindicina di casi di una variante della Creutzfeldt-Jakob. Si tratta di una malattia presente dal 1920 in tutto il mondo, anche dove non c’era lo scrapie nei bovini, con una presenza sporadica, un caso ogni 800.000-1.000.000 di abitanti, di eziologia non ben determinata, a volte confusa con l’Alzheimer o l’arteriosclerosi. Questa malattia si manifestava con l’insorgenza, in persone anziane, di una sindrome di tipo neurologico, quindi con astenia, depressione, paralisi con una durata di 4-5 mesi.
Improvvisamente è insorta una nuova variante, denominata Creutzfeldt-Jakob variante, che colpiva gli individui più giovani, esordiva con una sindrome neurologico-psichica e aveva una durata di 14-15 mesi.
Agli esami autoptici è stato riscontrato che la sindrome aveva manifestazioni analoghe ai quadri cerebrali di vacca pazza. E’ stato così ipotizzato il legame con il morbo di vacca pazza. Anche perché nel frattempo si erano acquisite ulteriori conoscenze sul salto della barriera di specie. Era stato accertato da ovino a bovino, però, per esempio, negli zoo in cui era stata somministrata questa farina di carne, si erano ammalati anche altri ruminanti, addirittura dei gatti.
Come si è potuti arrivare a questo punto?
Una delle ragioni più gravi è che in Inghilterra non era stata fatta una bonifica radicale. E per bonifica radicale si intende che quando si riscontra un caso in un allevamento, tutti gli altri vanno considerati sospetti di malattia in incubazione, e di conseguenza distrutti. Questo non è stato fatto: inizialmente, prima di capire il collegamento, anche i capi morti di Bse venivano riciclati e dati da mangiare. In seguito sono stati esclusi e inceneriti, ma intanto si calcola che siano entrati nel circuito alimentare inglese da 800.000 a 1.250.000 capi sospetti, perché casomai il veterinario li visitava, trovava carne senza lesioni parassitarie o di altro genere e dava il via libera.
Il problema è che la malattia a tutt’oggi si diagnostica solo post-mortem; anche quando si vede che una vacca comincia a deambulare malamente, ad avere sintomi eccitativi e depressivi alternati, solo l’esame dell’encefalo, del tronco encefalico, una volta abbattuto l’animale, dà la sicurezza diagnostica.
Tra l’altro, gli esami che venivano fatti post-mortem fino a poco tempo fa si avvalevano di una serie di prove istochimiche che prevedevano la fissazione del cervello per un certo numero di giorni in formalina, poi l’allestimento di vetrini, la colorazione, la lettura. Per cui l’intervallo di tempo minimo tra il prelievo dell’encefalo dopo la macellazione dell’animale e l’esito della prova era di una ventina di giorni, se il laboratorio non faceva nient’altro; se invece era intasato, i giorni diventavano quaranta.
Questa prassi comportava dei problemi enormi perché è evidente che, in attesa dei risultati del test diagnostico, la carne non poteva entrare nel circuito alimentare. E dato che i riscontri di positività in un animale apparentemente sano sono di due o tre (nei paesi dove è presente la Bse) ogni 5000 capi, questo voleva dire comunque tenere sotto sequestro per 40 giorni anche gli altri 4997 capi, potenzialmente sani. Così però la carne andava a male, per cui bisognava congelare l’animale con evidenti perdite economiche. Gli agricoltori già saltavano alto così, era impossibile!
La situazione è cambiata quando è stato individuato un altro test, che si chiama Prionix, un test rapido basato su anticorpi monoclonali che consente di avere una risposta in 24-48 ore. La Comunità Europea, dopo prove comparative con il test classico, da cui è risultato che non solo i risultati corrispondevano, ma addirittura il test anticipava di qualche mese la positività, ha avallato il Prionix.
Arriviamo così alla storia recente: estendendo il test sono saltati fuori nuovi casi anche in Francia.
Adesso quali sono gli scenari ipotizzabili sotto il profilo del rischio sanitario?
Se teniamo presente l’entità della diffusione di questa malattia, quindi tutti i capi che sono stati mangiati dagli inglesi, e il numero di casi di variante Creutzfeldt-Jakob riscontrati, che nell’uomo sono una novantina fino ad oggi, vediamo che non dovrebbe esserci un grande rischio in giro.
Allora, oggi gli scenari sono di due tipi, entrambi avvalorati da ricerche scientifiche.
Uno dice: queste 90 persone in Inghilterra, più 3 in Francia, sono solo sfortunate, in quanto affette da una particolare predisposizione a contrarre questa malattia, in realtà il livello di rischio generalizzato non è elevato; è vero che ha periodi di incubazione lunghissimi, però si manterrà al massimo a questi livelli epidemiologici. In effetti, se consideriamo che in Italia muoiono 8000 persone all’anno per incidenti domestici e che in Inghilterra dal 1985 al 2000 sono stati registrati 90 casi di morte per questa patologia, per carità nessuno deve morire se si può evitare, però…
L’interpretazione più allarmistica dice invece: la malattia ha periodi di incubazione lunghissimi, fino a 50 anni nell’uomo, questi sono solo i primi, quelli particolarmente suscettibili, ma ci saranno migliaia di morti.
Oggi comunque tutti gli animali macellati in Europa dopo l’anno d’età sono toelettati degli organi a rischio, encefalo, midollo spinale, ileo, tonsille e occhi, quindi la carne che arriva non dovrebbe essere contaminata; in più le farine di carne sono state messe al bando già da tempo. Ora sono state messe al bando anche per polli e suini.
Su quest’ultima decisione lei esprime delle perplessità…
Il fatto è che il caso dei polli è diverso da quello dei bovini, intanto perché i polli sono onnivori, e poi va ricordato che le farine di carne rappresentano uno strumento valido di integrazione proteica. A cui si unisce il vantaggio di eliminare queste carcasse, perché i costi di smaltimento sono notevoli e faranno lievitare i prezzi della carne, che saranno poi scaricati sui consumatori.
D’altro canto, questo provvedimento si spiega col fatto che se le farine di carne continuano a girare, pur per altre specie, non è escluso che ci sia qualche trasgressore che le dia alle sue vacche, perché costano di meno; la soia, sostitutivo ideale per l’integrazione proteica, costa 45.000 lire al quintale; le farine animali costano 15.000 lire!
L’altra preoccupazione rispetto al provvedimento è che, dovendo sostituire le farine di carne, arriveranno nella mangiatoia dei nostri animali gli alimenti transgenici, perché il 60% della produzione mondiale di soia è transgenico; il mais idem, per cui noi innescheremo di nuovo un grande rischio senza conoscerne gli effetti. Allora, io che sono schierato per la prudenza, per il principio di precauzione dico: prima di dare gli alimenti transgenici ai nostri animali, che producono alimenti per noi, dobbiamo essere cauti, perché noi siamo già doppiamente cavie. Mangiamo anche noi gli alimenti transgenici attraverso biscotti, cioccolato, gelati, merendine ecc. E in più c’è l’effetto relais alimento transgenico-animale-uomo.
Probabilmente i 4 mesi di blocco dell’utilizzo delle farine fissati dall’Unione Europea servono proprio per saggiare quale sarà la reazione del mondo produttivo. Perché in Italia, ad esempio, il settore della carne avicola è l’unico autosufficiente, nel senso che non dobbiamo ricorrere all’importazione. Però la forbice tra costi e ricavi è molto stretta, per cui se costoro non potranno più usare la farina di carne, che costa poco, e saranno costretti a comprare la soia, andrà malissimo.
Credo che ora l’intenzione comunitaria sia di fare il blocco permanente e non immettere più farine di carne, così da azzerare il rischio. Qui, ripeto, ci sono pro e contro: il rischio sanitario nei polli è zero, ad oggi non ipotizzabile, del tutto virtuale, perché il pollo impiega 34 giorni, da pulcino di un giorno a pollo di un chilo e mezzo, che è la pezzatura richiesta (55 giorni se lo portano a tre chili) e la malattia ha degli anni di incubazione. E bisogna far attenzione a non far passare l’equazione carne bovina uguale carne infetta e farina di carne uguale farina di carne infetta; la stragrande maggioranza dei bovini nel mondo non è infetta, quindi anche queste crociate contro la carne…
L’altro aspetto è che se continua a girare per polli o suinetti, ci sarà sempre qualche sprovveduto o qualche disonesto che le darà alle vacche, e questo qui casomai per risparmiare le diecimila lire per quintale di mangime creerà dei problemi di dimensioni inimmaginabili.
Ormai c’è una tale interdipendenza nel sistema produttivo per cui gli egoismi di un segmento si ripercuotono sulla salute della collettività e sull’intero sistema produttivo. Questi che davano la farina infetta alle loro vacche hanno provocato una crisi tale da coinvolgere anche il povero cristo che abita in Val di Susa, che non ne sapeva niente e che non trova più da vendere il suo vitello.
Ma perché venivano usate farine di carne per gli erbivori?
Perché in realtà le grandi lattifere adibite a forzature produttive fuori fisiologia hanno bisogno di un apporto proteico super, che però è molto costoso. Le farine animali invece sono assolutamente economiche e poi così si risolveva anche il problema di ripulire l’ambiente.
Qui parliamo di un sistema zootecnico che, viaggiando all’insegna del profitto, vede uno scarso rispetto degli animali, perché, a parte il dato del cannibalismo, agli animali si è data sempre qualunque schifezza purché costasse poco.
Allora, a mio avviso, la lezione Bse dovrebbe innanzitutto comportare una profonda revisione dei sistemi di produzione in zootecnia.
Perché le vacche devono avere queste integrazioni proteiche? Perché una vacca in natura fa 1500 chili di latte all’anno; le vacche allevate, selezionate e sottoposte a trattamenti intensivi, nelle stalle migliori ne fanno oltre 10.000 chili, quasi dieci volte tanto. Addirittura il primato del mondo di produzione di latte di una vacca canadese è di 27.000 chili di latte, con ormone somatotropo, mungitura tre volte… e ovviamente per sopperire a queste produzioni -in ogni chilo di latte ci sono 3,5 grammi di proteine- la vacca o si spoglia o bisogna supportarla.
Quindi la lezione Bse, senza isterismi, senza enfatizzazione del rischio sanitario, che nel nostro paese è incomparabilmente più ridotto rispetto all’Inghilterra, deve farci fare una riflessione profonda.
E’ possibile che la crisi sia riconducibile a un fenomeno endemico, come risultato di questo tipo di produzione intensiva?
Che su questa malattia non si conosca abbastanza, perché ci sono state omissioni e tentativi di bloccare le proteste degli scienziati più consapevoli è un dato di fatto. Allo stato delle evidenze sembra che la malattia non si trasmetta per contatto e quindi l’origine della malattia sarebbe alimentare.
Il fatto è che in Francia sono stati esportati dall’Inghilterra, clandestinamente, molte migliaia di vitelli e alcuni di questi potrebbero essere stati contaminati là. C’è infatti anche una teoria che sostiene che la malattia si trasmette da vacca infetta al suo vitello nel 10% dei casi, quindi questi vitelli provenienti da allevamenti contaminati sono entrati clandestinamente in Francia e alcuni possono essere venuti anche in Italia.
Ci sono ancora dei misteri nella modalità di insorgenza e trasmissione della malattia che ci devono indurre a una particolare cautela.
Sicuramente non è solo il frutto perverso di un modo di produrre, perché le malattie infettive hanno sempre una base, però che il sistema di produrre sia perverso e irrazionale lo dimostra non solo la somministrazione delle farine di carne a dei ruminanti, che è un vero assurdo, ma anche altre forme di allevamento intensivo.
Per i vitelli a carne bianca, recentemente sono cambiate le normative e gli allevatori sono ora obbligati a dargli anche un po’ di fibra.
Ma fino a pochi mesi fa venivano alimentati solo con latte, impedendo artificialmente lo sviluppo del rumine, del reticolo e dell’omoso, che sono i tre stomaci che precedono il quarto stomaco, quello ghiandolare o abomaso.
E ancora: mantenere queste migliaia di polli ammassati nei capannoni porta all’esasperazione dei fenomeni di aggressività, per cui devono mettergli degli occhialini in modo da renderli semiciechi, o tagliargli il becco per evitare episodi di cannibalismo. Sicuramente ci sono delle esasperazioni nella forzatura produttiva degli animali di interesse zootecnico che devono cambiare. La lezione della Bse dev’essere quella: una profonda revisione dei metodi produttivi.
Tra l’altro, questa massificazione delle produzione va contro i principi della politica di qualità. E siamo di fronte a delle eccedenze produttive; non sappiamo più cosa farne di questa roba che produciamo. Anche perché da un lato produciamo con sistemi sospetti; il consumatore si preoccupa e giustamente è diffidente, per cui consuma di meno, noi allora diamo dei soldi all’agricoltura per continuare a produrre con questo sistema!
Produciamo tanto latte e poi facciamo l’allevamento dei vitelli da latte per smaltire le eccedenze; i vitelli da latte per poter stare sul mercato devono essere ormonizzati ed ecco che noi li ormonizziamo. E’ un circolo perverso che deve in qualche modo essere stroncato. Il profitto è un indicatore di efficienza aziendale, ma non può mai andare contro le regole dell’utile collettivo; in nome del profitto non si devono giustificare tutte le aberrazioni. C’è una dimensione sociale in tutte le attività umane, che è il limite etico e il tetto massimo del profitto.
Adesso è subentrato un altro problema, molto contingente: la paralisi di macelli e mattatoi...
Quando è di nuovo esplosa la questione Bse hanno proibito di trasformare in farine animali tutti gli animali morti negli allevamenti per qualsiasi causa, considerandoli prodotti ad alto rischio. In più neanche gli organi a rischio, quelli che vengono tolti da tutti gli animali macellati a oltre un anno di età, possono più essere riciclati. Mentre prima la produzione di farine di carne era limitata agli avanzi di animali sani regolarmente macellati.
Con l’attuale moratoria succede che le industrie che producevano farine di carne adesso non solo non possono ritirare gli animali a rischio, ma neanche la roba dei macelli. Così oggi ci sono questi magazzini pieni di farine di carne, che resteranno invendute perché da gennaio sarà vietato.
Qual è la soluzione? Queste farine vanno prelevate da queste ditte e stoccate, o vanno buttate nelle discariche, o ancora vanno usate come fonte di energia, come combustibile nei cementifici, nelle centraline, che hanno però delle strutture tecniche più adatte ad utilizzare il gasolio come fonte energetica.
L’importante è agire tempestivamente, perché i macelli sono pieni di questi organi a rischio e avanzi di macellazione, ossa, sangue, ritagli, grasso, che le industrie attualmente non stanno più ritirando, quindi si rischia la paralisi della macellazione. Poi c’è tutto il problema degli animali morti, perché tutti questi avanzi, ammesso che debbano essere distrutti, devono subire prima un pre-trattamento per trasformarli in farina e poi un secondo intervento di incenerimento e distruzione finale. E adesso mancano delle indicazioni precise su queste fasi, per cui è un momento molto difficile.
Adesso il commissario unico nominato per la Bse, che è un politico, si auspica prenda delle decisioni e dica che fine fanno queste farine di carne, primo quesito; seconda cosa, che è quanto chiedono gli industriali, per smaltirle, visto che c’è un costo, interviene il potere pubblico, o con un sistema di assicurazione o con una tassa speciale, come è avvenuto in Francia. In questo modo l’allevatore continua a mandare l’animale al macello; il macellatore, che ha dei costi di produzione supplementari per lo smaltimento di queste carcasse o degli organi a rischio, dei ritagli di macellazione, non carica l’allevatore, ma lo vende allo stesso prezzo di prima all’industria; l’industria viene finanziata dallo stato, che svolge un’attività di interesse sociale. Questo è quanto si chiede. Comunque la soluzione è quella. Oppure si prendono queste farine di carne e si buttano nelle discariche, per la felicità di topi e insetti. O ancora si fanno dei grandi consorzi di smaltimento, di inceneritori che distruggano queste carogne. E’ comunque un’operazione che avrà dei costi e che ci è capitata tra capo e collo, indicatore di una pessima programmazione da parte del ministero della sanità.
Rispetto al discorso delle eccedenze, quanto può aver influito il fatto che in passato di un animale si utilizzasse e consumasse quasi tutto, mentre oggi si scarta moltissimo?
Sicuramente anche il cambiamento sociale ha dato il suo contributo: una volta le donne rimanevano a casa a fare le casalinghe e allora, cominciando a cucinare fin dal mattino, potevano preparare anche il bollito o lo spezzatino, facendolo cuocere tre-quattro ore. Adesso lavorano tutti e allora c’è bisogno della fettina; le fettine le danno le natiche e un po’ la spalla, per cui tolte le parti pregiate,di tutto il resto non si sa cosa farne. Ma l’eccedenza in realtà è un problema antico e riguarda la politica agricola. La Comunità Europea si è unificata, dopo l’acciaio, nel comparto agricolo.
Aveva alcuni obiettivi: raggiungere l’autosufficienza alimentare ed esportare nei paesi che soffrivano la fame, la Cina e l’India in particolare. Ebbene, dati questi obiettivi, l’imperativo categorico era produrre più che si poteva con qualunque mezzo. Il fatto è che ben presto queste si sono rivelate previsioni sbagliate: l’autosufficienza è stata rapidamente raggiunta; la Cina e l’India pure hanno raggiunto l’autosufficienza alimentare per cui questi sbocchi sono venuti meno.
Così noi ci siamo trovati di fronte ad un sistema avviato alla massima produttività e ampiamente sostenuto dai finanziamenti pubblici che produceva eccedenza.
Allora cosa si faceva? Perché le eccedenze non andassero sul mercato facendo crollare i prezzi, si ritiravano, attraverso degli interventi organizzati, in modo che sul mercato rimaneva sempre la quantità giusta e al prezzo di mercato, concordato nel corso di queste maratone verdi. Per cui le arance dovevano sempre costare duemila lire al chilo e quelle che venivano prodotte in più andavano a finire sotto le ruspe... Insomma, parliamo di un modo di produrre pessimo, di un esempio di razionalità veramente di infimo livello, tutto economicistico. A ciò si è poi aggiunto un calo di questi consumi, quindi noi abbiamo continuato per anni a produrre per un mercato che non esisteva. Il fatto è che come tocchi i soldi all’agricoltura, ecco che gli allevatori vanno in piazza. Ma non c’è niente da fare: bisogna produrre quello che basta, oppure cosa molto migliore, fare delle operazioni di solidarietà internazionale, per cui le eccedenze vanno regalate ai paesi del terzo mondo. Ma chi è che produce per regalare? Nessuno.
Qualcuno ha raccolto il caso "mucca pazza" anche per tornare a parlare dell’opportunità, quasi inevitabilità, della scelta vegetariana…
Il discorso del vegetarianesimo è una scelta di vita, che ha sicuramente delle forti motivazioni etiche; una scelta di vita individuale, una teoria rispettabile, non bisogna però criminalizzare chi invece non crede a questo e vuole mangiare latte, uova, pesce e carne, sempre rispettando il fatto che agli animali deve essere consentita una vita degna di essere vissuta, anche se finalizzati a diventare alimento per l’uomo.
Bisogna poi stare attenti a non sconfinare nel velleitarismo, nel senso di voler riproporre dei sistemi di produzione che sono superati e destinati a rimanere confinati in ambienti isolati. Il mondo va avanti, bisogna essere capaci di governare l’evoluzione produttiva, perché le innovazioni che la scienza, la ricerca e il progresso in generale ci mettono a disposizione sono utili e non dannose; bisogna ragionare in una logica di sistema e non di lobby, perché se noi ci mettessimo a dire: "noi abbiamo la nostra buona chianina", bene, la chianina ha meno di 20.000 capi, se mangiassimo tutti la chianina, in un giorno la finiremmo tutta. E poi c’è anche il problema dei costi, perché adesso in agricoltura c’è questa spiacevole situazione: gli allevatori o gli agricoltori ricchi che producono facendo ricorso alla chimica di sintesi, o all’allevamento intensivo, lavorano per i produttori poveri, i poveri cristi che hanno bisogno di spendere poco per poter mangiare; mentre gli allevatori e gli agricoltori poveri, che sono quelli che vivono nelle zone emarginate e fanno quelle pochissime produzioni destinate inevitabilmente a ridursi e tipiche, lavorano per i consumatori ricchi, che hanno i soldi, i vari gourmet, i vari filosofi.
Però ce ne vuole a pretendere che uno stia tutta la vita in montagna, sottosviluppato, isolato, senza assistenza sanitaria per far delle buone tome che qualcuno vada a mangiare la sera pagandole 40.000 lire al chilo, e all’allevatore gliele pagano 8.000.
Allora, è vero che noi dobbiamo andare verso la politica di qualità, ma non dobbiamo avere delle chiusure cieche e ottuse al progresso; dobbiamo governare questo progresso, il che è molto difficile. E quindi ben vengano tutte le varie associazioni, Slow Food eccetera, perché ai piaceri della tavola nessuno deve rinunciare, però bisogna fare attenzione a inquadrare nelle giuste dimensioni questo fenomeno.
Tutela dell’ambiente, rispetto del benessere animale e della salubrità delle produzioni, vanno conquistati individuando questo percorso, difficile, tra il progresso, il profitto e l’esigenza di tutela della salute, che è la triade che governa il mondo; questo vale per l’industria, e vale per tutto.
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