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Roma, 20 febbraio 2011 A quindici anni dalla morte, Sellerio editore ripubblica la raccolta di scritti di Alexander Langer con il titolo «Il viaggiatore leggero», volume curato da Edi Rabini e Adriano Sofri. È l’occasione per tornare a riflettere sulle idee e sull’itinerario di vita di uno dei fondatori del partito italiano dei Verdi. Secondo Langer, la conservazione propria della destra è quella dei rapporti di potere, non dell’ambiente, del patrimonio o della cultura tradizionali. Viceversa la sinistra disconosce, sbagliando, ciò che di buono c’è nel passato e nella sua custodia. Chi ha condiviso il suo tempo, sa bene chi è Alexander Langer. Per chi invece è venuto dopo, come chi scrive, c’è bisogno di cominciare da capo. Perché Alex - così lo chiamano gli amici che continuano a trasmetterne la memoria - secondo le catalogazioni classiche è un politico. Ma un politico insolito, di quelli che non si trovavano una volta, e non si trovano nemmeno ora. E proprio per non mischiarlo tout court con la politica politicante molti preferiscono dire di lui che è stato un costruttore di ponti: metafora quanto mai esatta, non solo per descriverlo, ma per riassumere la politica stessa: dove appunto ci sono quelli che i ponti li fanno saltare, e quelli che li tirano su. Langer edificava, con la comprensione, l’ascolto e il confronto. E anche lui probabilmente capiva la sua anomalia, sentendosi un po’ a disagio nella cerchia cinica del mestiere politico, del tutto estraneo al suo livello più malato, quello dell’affare e della corruzione. Tanto che quando Tangentopoli scoppiò, Langer cominciò a inviare ai giornali lettere nelle quali riportava minuziosamente entrate e uscite della sua attività di parlamentare europeo, presidente del Gruppo dei Verdi. Lettere che nessuno prendeva in considerazione - e per questo, sono importanti. Perché mostrano che c’era (e c’è ancora) un modo diverso di fare politica. Uno stile coerente Le pagine di Langer possono essere prese in effetti come una guida precisa allo smarrimento della politica di oggi. Incastrata nella dichiarazione a uso del telegiornale della sera e incapace di pensare persino a dopodomani: figurarsi al futuro (del pianeta, poi). Alexander Langer era una persona ben radicata, per questo poté avere l’ardire del pioniere. Fu lui a fondare il Partito dei Verdi italiani, sulle macerie dell’ideologia di classe della sinistra estremista italiana (prima, fu un militante di Lotta Continua). Lo fece in nome di qualcosa di più grande e insieme di più semplice: la vita della terra e quella delle persone che la abitano. «Se i Verdi sapranno rinunciare alla tentazione intellettualistica di presentarsi come rinnovatori del mondo in nome di progetti astratti - scrisse -, e riusciranno invece a collegarsi a quanto di vivo e positivo si può ricavare dall’esperienza non ancora cancellata dei rapporti tra uomo e natura, e tra uomini, nella cultura popolare, il discorso verde potrebbe smascherare contemporaneamente la falsità del “conservatorismo” della destra e del “progressismo” della sinistra, prospettando una via d’uscita davvero liberata dalla consunta polarizzazione ereditaria tra destra e sinistra». Secondo Langer, la conservazione propria della destra è quella dei rapporti di potere, non dell’ambiente, del patrimonio, della cultura tradizionale. Viceversa la sinistra disconosce, sbagliando, ciò che di buono c’è nel passato e nella sua custodia. In un’intervista con Adriano Sofri, che fu il leader carismatico di Lotta Continua, Langer spiega che le persone che venivano dai movimenti della fine degli anni Sessanta e dei Settanta trovavano nella riconversione ecologica un modo concreto per tenere insieme il desiderio di cambiamento dell’esistente e la possibilità effettiva di farlo: senza sprofondare, come alcuni fecero scegliendo la lotta armata, nell’annichilimento dell’altro. «Io uso a proposito della questione dei rapporti fra sinistra e Verdi - dice Langer - un paragone che ti sembrerà strano, ma è efficace, col rapporto fra Vecchio e Nuovo Testamento, com’è visto dai cristiani: c’è la continuità, le profezie incompiute, le speranze di liberazione, ma poi è solo nel Nuovo Testamento che si compiono, e attraverso una rottura». Le radici sudtirolesi Nella bella introduzione al libro, Goffredo Fofi fa notare che «se si dovesse chiudere in una formula ciò che Alex Langer ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioè farle metter radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilità di ridare alla politica il valore della responsabilità di uno e di tutti verso ‘la cosa pubblica’, il ‘bene comune’, verso una solidarietà tra gli umani e tra loro e le altre creature». E chiarisce: «Dico carità nel preciso senso evangelico, poiché Alex era un cristiano, dei non molti che cercavano di attenersi agli insegnamenti evangelici». Quando Langer cominciò a frequentare l’Università di Firenze conobbe Don Lorenzo Milani, l’autore di «Lettera a una professoressa», che tradusse in tedesco insieme a Marianne Andre dopo la morte del parroco. In un articolo pubblicato su «Azione non Violenta» nel 1987, Langer scrive che c’erano “due cose” che l’avevano «sempre incuriosito e non convinto di Don Milani» ma che non ha «mai trovato il coraggio di chiedergliene ragione». Le due cose riguardavano, una, «l’eredità che Don Milani aveva ricevuto e conservato dell’ebraismo, che lui aveva abbandonato per convertirsi al cattolicesimo». Un’altra era, scrive, la «ragione della sua (eccessiva, secondo me) fiducia nelle grandi aggregazioni (la chiesa, la Dc, i comunisti, il sindacato ...), e della sua diffidenza e forse disprezzo per le minoranze (i filocinesi, il Psiup di allora, gli estremisti, le minoranze laico-radicali...)» nelle quali Langer si riconosceva. «Avevo capito che lui credeva molto nelle grandi culture popolari e nella necessità che le idee forti si facessero strada in modo non elitario tra le grandi masse. Ma ho sempre avuto il sospetto che questa impostazione facesse in qualche modo violenza alla sua stessa storia, tutta quanta: dalla sua origine, al suo cammino nella chiesa fiorentina, fino all’esilio di Barbina». Queste domande senza risposta dicono molto della diffidenza che Alexander Langer nutriva verso le grandi istituzioni. Una diffidenza che si trasforma in aperta sfiducia quando dalle grandi organizzazioni politiche di massa si passa alle organizzazioni politiche dei tecnici, come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e via dicendo. Più di ogni altro, egli capì per tempo la trasformazione globale che stava mutando il segno della politica contemporanea, conducendola sempre di più verso il dominio del bios, della vita, attraverso il controllo delle nascite, la manipolazione genetica, e altre diavolerie. Langer seppe stare all’altezza di questo mutamento (l’ecologismo è in effetti un’idea globale o non è) ma nella lotta tra la politica e la vita, cioè il cuore della biopolitica contemporanea, egli si schierava senza esitazioni dalla parte della vita, contro il potere che pretende di sottometterla e governarla a tavolino. E tuttavia, in un’esistenza pur così generosa e ben vissuta, non sono mancati l’enigma e l’ombra. Alexander Langer si suicidò nei pressi di Firenze il 3 luglio 1995. Pochi mesi prima, era stato escluso dalla candidatura a sindaco della città di Bolzano. Perché, quando venne deciso il censimento della sua popolazione in base all’appartenenza etnica linguistica (italiani, tedeschi, ladini), Langer si oppose strenuamente e si rifiutò di farsi incasellare, considerando quella scelta una violenza che divideva le persone. Prima di morire, nell’ultimo biglietto, scrisse: «Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto». Un epilogo comunque amaro. Che - come dice Adriano Sofri - non deve però impedirci di porci la domanda giusta sul suo conto. Cioè non perché Alexander Langer sia morto come è morto. Ma perché sia vissuto come è vissuto.
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