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Roma, 28 luglio 2001 E' duplice l'augurio da farsi ora che Carlo è stato seppellito, il fumo dei lacrimogeni dissolto e quello delle polemiche si addensa in vortici di deja vu. No, non torniamo indietro, per favore. Non riesumiamo, sulle rovine di Genova, i vecchi arnesi ideologici riposti insieme ai sogni nei cassetti del '68 e '77. Questo movimento è un'altra cosa; anche se odora, a tratti, di ben conosciute muffe. La mobilitazione del G8 è stata un Giano bifronte. Con una faccia oscura, quella di una violenza mai vista (al confronto Seattle, Davos e Praga erano passeggiate), appena velata da qualche straccio pseudoideologico (non chiamiamoli anarchici, questi devastatori di professione! Il loro nero è più quello viscerale dei bassi istinti che quello nobile di una tradizione politica che comunque ha un posto nella storia)Una violenza, insomma, allo stato puro, da "Arancia Meccanica" più che da insurrezione contro lo Stato. Questa altalena di lati chiari e oscuri degli eventi di Genova impone - una volta raccontati a caldo i fatti - una riflessione scomoda, ma che va fatta. Tentiamola. Dopo Genova, niente può più essere come prima: il movimento e le forze politiche che dialogano con le varie componenti devono fare i conti con una violenza non marginale, non da "effetto collaterale", ma prima attrice sulla scena. Non importa se a devastare sono stati cinquecento (come diciamo noi) o cinquemila (come dice la polizia) tute nere: è stata la qualità della violenza, nella sua assoluta protervia, a far saltare le regole del gioco. Non dico "gioco" per caso: le tute bianche di Luca Casarini, protagoniste del pre-G8 sino a quando non sono state brutalmente spodestate dalle tute nere, avevano tentato un sentiero difficile ma interessante che era quello di optare per una "rappresentazione simbolica" dello scontro, più che per lo scontro vero e proprio. Una "disobbedienza civile" in cui si trasgrediva all'ordine ritenuto ingiusto, ma senza offendere persone e cose. Ora che persone e cose sono state offese come non mai, il gioco scenico non può più funzionare. La consapevolezza e l'autocontrollo necessari per sublimare il piacere testosteronico della violenza in azione simbolica, indispensabili per arginare la voglia di corpo a corpo che un giovane maschio conosce (e sarebbe ora di indagare, in questo mito del "macho" guerriero cui soltanto il subcomandante Marcos e le femministe hanno sin ora strappato la maschera) e indirizzarla verso una guerriglia più mimata che vissuta, non sembrano più sufficienti. La violenza sic et simpliciter delle tute nere ha spazzato via qualunque zona intermedia, qualunque confine tra attacco vero e attacco rappresentato e dunque la prima cosa da fare è una scelta chiara, adamantina, per la non-violenza tout court. Una scelta autenticamente gandhiana, per intenderci. Ridurre a zero l'ambiguità, per non parlare delle eventuali e credo rare complicità che alcune componenti del movimento possono ospitare. Questo è normale in un arcipelago così complesso e variegato e non dimentichiamo che molti militanti rischiano, se incalzato da eventi drammatici, di tramutarsi da pacifisti in violenti nell'arco di un secondo. La volontà di non-violenza, nonostante le naturali voglie di vendetta e di rivincita, è un argine che il movimento deve rafforzare con la massima determinazione. Come, lo si studierà insieme; ma va fatto hic et nunc, prima che sia troppo tardi, prima che si imbocchino le derive già tragicamente percorse dai movimenti-padri del '68 e del '77. Come scrive il capo Shuar Tzamraini Naychap, in prima linea alla guida di un piccolo popolo indigeno dell'Ecuador contro la multinazionale Texaco (dunque, una vittima per antonomasia della globalizzazione, contro cui tanti hanno marciato a Genova): "è arrivata l'epoca di una guerra sin sangre e sin armas, senza sangue e senza armi, per difendere la terra e tutti gli esseri viventi. Noi sappiamo farla con l'alta tecnologia spirituale che la sapienza ancestrale dei nostri antenati ci ha tramandato". Sorridete per l'ingenuità degli Shuar? Qualcuno avrà sorriso anche dell'ingenuità di Gandhi, Ma questa è l'unica scelta per questo movimento planetario sia per allontanare da sé le varie tute nere e i tentativi di screditare l'intero movimento a causa delle male-azioni delle medesime, sia per recuperare quel che è andato perso per strada tra i rifiuti e i bossoli dei lacrimogeni. I perché, ovvero i motivi, le ragioni, le istanze che questo popolo di Seattle-Genova esprime ed esprimerà. I contenuti della protesta, insomma, che sono i veri desaparecidos del G8, insieme ai ragazzi pestati e dispersi della scuola Diaz. La novità politica che la parte più avanzata di questo movimento ci impone di affrontate è la consapevolezza che la lotta per governare la globalizzazine, per renderla più equa, più umana, più attenta all'ambiente, non si fa con gli scontri ma - come scrive Michele Serra - "con gli scontrini". Andando a far la spesa consapevolmente, per esempio rifiutando il ruolo di consumatore passivo e assumendo quello di cittadino attivo in ogni atto quotidiano, anche minimo; perché ogni azione pesa sull'equilibrio ecologico e sul divario tra ricchi e poveri. La vera rivoluzione oggi è introdurre regole forti nel mercato globale a tutela dei diritti umani, dei lavoratori, degli ecosistemi della Terra. Si fa perfezionando gli accordi di Kyoto più che le tecniche di guerriglia. Combattendo nemici insidiosi e invisibili come gli Ogm nel piatto, piuttosto che i poliziotti-ragazzi di pasoliniana memoria. Si fa contribuendo a ridisegnare la geografia dei grandi organismi internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario), delle multinazionali che stanno tentando di impadronirsi del mercato globale, dei governi nazionali sempre più esautorati di potere reale. Al contrario del '68, non si dà battaglia per conquistare il potere in tutta la sua gloria, ma per rivelare la miseria del potere. Il codice culturale che traversa molte anime del movimento pacifico è ancora in gran parte da decifrare. E' urgente decriptarlo, e di questo devono soprattutto discutere le forze politiche. Di questo e dei contenuti. E su questo devono dialogare con le varie componenti. Altrimenti ogni incontro-scontro con i popoli della protesta verrà ridotto a mero problema di ordine pubblico. Se questo accadrà non ci resterà che raccogliere i cocci - di bottiglia e simbolici - di un movimento che ha invece in sé tanta parte di ideali e di speranze. E che può agire da magnete su migliaia di giovani, sottraendoli alla tentazione della violenza. A ognuno il suo, dunque. I movimenti e le forze politiche devono prendersi ciascuno le proprie responsabilità, e subito.
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