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Trento, 20 gennaio 2010 Fabio Osti ha avuto un percorso difficile, in una vita che ha conosciuto l’emigrazione in Argentina a partire da un Trentino povero e con un ritorno che presentava difficoltà di reinserimento, non ultima quella di parlare un dialetto risalente a vent’anni prima. Ebbe anche da difendersi da una subdola inespressa sottovalutazione tendente a sminuire le sue capacità di lavoro, di ingegno, di conoscenza. Ho apprezzato - collaborando a lungo con lui negli anni ottanta - tre elementi/valori che contrassegnano una civiltà matura, ma che la nostra società disattende o addirittura combatte. 1. L’amore per la natura, non in senso generico, bensì nella concretezza del quotidiano; non soltanto verso l’orso bruno alpino, che fu al centro del suo lavoro professionale, ma più in generale verso tutti gli animali, spesso ignorati o disprezzati dagli uomini - come il piccolo di volpe che aveva salvato e curato e che fu ucciso dalla cattiveria dell’ homo sapiens. 2. L’impegno di studio e ricerca, anche a prescindere dal titolo accademico, di cui restano molte pubblicazioni: tra queste il volume Parchi e riserva naturali del Trentino (Temi, 1988 - con Attilio Arrighetti e me) del quale stese un quadro complessivo della fauna trentina che nessuno degli ecologi consultati prima di lui si era sentito di affrontare. 3. L’orso inteso come simbolo dello stato dell’ambiente, la cui sparizione è minacciata soprattutto dal comportamento umano e dallo sfruttamento economico, anche nelle aree più recondite e selvagge: Fabio avvertiva quasi una religiosità nell’ecosistema montano, la necessità del rispetto e del silenzio. |
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