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Trento, 5 aprile 2007 Fino a qualche anno fa, la presenza del papa e dell’alta gerarchia cattolica in generale ai telegiornali del servizio pubblico Rai era relativamente discreta e per lo più limitata alla domenica ed al mercoledì (giorno delle udienze) - salvo eccezioni dovute ad eventi straordinari, come i viaggi di papa Woityla e qualche convegno. Recentemente nella fase terminale del pontificato di Giovanni Paolo II e con l’insediamento di papa Ratzinger invece la presenza televisiva diventa quotidiana, a prescindere dal contenuto. Martellante fino all’ossessione è il richiamo ai temi del momento, spesso a un solo tema, su cui pare si voglia contrapporre il Bene e il Male. Al convegno ecclesiale di Verona (ottobre 2006), Benedetto XVI sostiene: «No a leggi che aiutano l’amore debole o deviato», intendendosi il rapporto effettivo, ma non formalizzato, fra due esseri di sesso diverso («amore debole») o dello stesso sesso («amore deviato»). Contrapponendosi così frontalmente a chi nel Parlamento sta lavorando (in particolare le ministre Rosy Bindi e Barbara Pollastrini) per una legge che garantisca a tali coppie – e ad altre possibili - i diritti civili elementari assicurati ai coniugati. Si ignora così l’autonomia dello Stato, che è di tutti, rispetto all’orientamento della maggioranza dei vescovi, che riguarda i credenti. Il cardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) - ora sostituito da monsignor Angelo Bagnasco - è stato il condottiero di questa ed altre battaglie, con rigidità e determinazione, contro «la secolarizzazione interna alla Chiesa e la secolarizzazione esterna». L’acme della intransigenza è stato raggiunto dal Vicariato di Roma, nel negare il funerale religioso a Welby – colpevole di avere richiesta e ottenuta la sospensione dell’accanimento terapeutico che gli prolungava grandi sofferenze - e nel perseverare successivamente nella sua condanna: un comportamento che non fa pensare al buon samaritano, né tanto meno al Redentore... L’apparato gerarchico della Chiesa cattolica sta camminando in senso contrario alle indicazioni del Concilio Vaticano II ed all’esempio di papa Giovanni XXIII, la cui autorevolezza mite si erge come faro sulle navicelle papali del Novecento: l’ottimismo della fede che può muovere le montagne; la carità ovverosia l’amore inesauribile; la speranza viva nonostante i drammi dell’umanità (spes contra spem). Le tre virtù «teologali» sembrano proprio aver abbandonato la Chiesa-istituzione nel terzo millennio. Ne discende una concezione di Dio burocratica e mediocre: da un lato vicina al fondamentalismo massimalista delle società chiuse e nel caso europeo anche privilegiate (come l’Opus Dei o Comunione e Liberazione); dall’altro propensa alla repressione di ogni dissenso ed autonomia di pensiero al proprio interno, con scelte ed atteggiamenti verso i «sudditi», non soltanto poco cristiani, ma perfino disumani. Nell’insieme è l’immagine di chi si sente con Dio, mentre vìola strutturalmente il secondo comandamento («Non nominare il nome di Dio invano»). La deriva non può apparire casuale e incolpevole, e la scelta di schieramento politico della Cei, che si riflette e si impone sull’intero apparato religioso, è stata e permane (ancorché negata) in favore del Polo delle libertà: soltanto un diktat centrale poteva e può ottenere la sostanziale omogeneità elettorale. Una tale assolutezza integralista vuole spingere tutti i cattolici, dapprima alla stessa posizione di principio, in seguito anche se non esplicitamente alla loro tendenziale unità politica, mettendo al bando «gli estremismi». Ma paradossalmente esercitando una potente azione estremistica. Questa regressione culturale e politica anticonciliare è confermata dal pendant spagnolo della Cei. «La nostra gerarchia ecclesiastica - si legge come opinione nell’autorevole mensile di ispirazione cristiana-conciliare El Ciervo - è altrettanto, se non più, aggressiva da Rouco y Cañizares) mirano a convertire il nostro stato in uno stato confessionale» (febbraio 2007). È un dio minore quello che ha bisogno di leggere nel preambolo della futura Costituzione europea «le radici cristiane dell’Europa», e di sentir ripetere almeno settimanalmente la predica. Si dimentica che la «santa» Inquisizione ha vessato per secoli i popoli del vecchio continente, cacciando e perseguitando ebrei e islamici. Mentre i musulmani della Spagna avevano assicurato secoli di convivenza con cristiani e israeliti, prima di soccombere loro stessi al fondamentalismo, aprendo così la strada alla Reconquista. Se si tratta di radici dunque, molte sono quelle che influenzarono l’Europa. «La vera identità dell’Europa è meticcia», afferma Marco Merlini, tra i promotori del Museo virtuale delle radici europee, voluto dai direttori di grandi musei storici di sette capitali del continente (Berlino, Vienna, Budapest, Bucarest, Sofia, Atene, Roma). «L’incessante incrocio di genti, di idee, di credenze, di istituzioni è la vera ragione della sua originalità e ricchezza culturale». La stessa cultura greca, cui molti fanno risalire le radici d’Europa, ha precedenti importanti nella «grande cultura pre-greca». Da ultimo vorrei che la istituzione ecclesiastica cattolica desse qualche segnale evangelico ai credenti dubbiosi: aprendo un dibattito sul ruolo e il futuro della donna in un apparato tutto maschile e controriformista, e riaffrontando la questione del celibato sacerdotale. Applicando i principi conciliari della collegialità (anche con l’abolizione del dogma dell’infallibilità del papa), della pari dignità tra laicato e clero, della trasparenza organizzativa di un Vaticano arroccato in un castello medievale. E ancora rispettando la distinzione evangelica «a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio». Sopratutto - con le parole del teologo Hans Küng, rivolte al pontificato-Woityla - «ritrovando la bussola del Vangelo e abbandonando la via delle scomuniche e delle minacce», per riprendere quella della libertà delle coscienze e dell’amore degli umani. Ne va della libertà stessa della Chiesa e del suo futuro. Sandro Boato
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