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Ogni volta che rifletto su uno dei bersagli preferiti dell’attuale critica ai “vecchi” sistemi, la “politica come professione”, penso a Alexander Langer. È stato il politico meno conforme che ho conosciuto e insieme, secondo non solo il mio giudizio, uno dei politici più “totali”, nel senso che politica e vita in lui si sono intrecciati a profondità cromosomica. Non riconosco ad Alexander Langer semplicemente un pensiero politico, non era un teorico che portava a spasso, nei suoi numerosi pellegrinaggi e nei suoi affanni, un castello di riflessioni complesse. Ha fatto politica concreta, densa, cercando accordo e persuasione, sapendo che era importante seminare bene anche se il raccolto non sarebbe stato immediato. Lo ha fatto sempre: ha giocato le sue carte, e se l'abilità di un politico di professione sta nel non smarrirsi quando resta senza carte in mano, Langer pur rimasto spesso a mani vuote era convinto di non aver perso. Era certo che col tempo le sue parole, le sue azioni e quelle di chi operava negli angoli più periferici e sperduti ma sullo stesso fronte, avrebbero persuaso, mutato l'orientamento comune. Era un politico fermissimo nelle proprie convinzioni, negli scenari che delineava, paziente allo spasimo, sottile nelle obiezioni. Era nato nel tumulto di pensieri e di analisi che avrebbero acceso il Sessantotto; si era formato, per passione, nella casa di un esiliato a Barbiana, sulle colline attorno a Firenze, dove le autorità ecclesiastiche avevano relegato un fastidioso prete che si chiamava Don Lorenzo Milani e che aveva scritto sul muro della sua scuola “I care”, me ne faccio carico, mi prendo cura. Parlava degli ultimi, dei poveri, dei senza potere e del loro accesso alla conoscenza, a una scuola in grado di prendersi cura esattamente di loro e non disegnata sulle chances dei garantiti, dei promossi per vocazione. Allora Langer studiava, era iscritto all’università di Firenze e Don Milani un giorno lo provocò dicendo che se davvero voleva darsi da fare avrebbe dovuto lasciare i corsi universitari e rimboccarsi lemaniche “qui e ora”. Langer non accolse l'invito. Elaborò la sua strada: scolpì nel cuore la celebre “Lettera a una professoressa” del maestro, la tradusse in tedesco assieme a Marianne Andre, e nei “Minima personalia” – autobiografia scritta nel 1986 – annotò che l’incontro con Don Milani e la sua scuola era stato il più profondo della sua esistenza; ma terminò gli studi e si prese due lauree. Accese, così, quella singolarità che lo avrebbe sempre contraddistinto nel corso di una inesauribile – per varietà di terreni affrontati – febbre politica. Distoglieva l’obiettivo dallo scontro frontale inteso come vettore dell’emersione delle contraddizioni, per ricondurlo alla logica di una radicale persuasione. Disegnò una sua traiettoria: era consapevole che la retorica andava benissimo per contarsi, per incendiare gli animi ma malissimo per produrre cambiamento, per spostare le cose, le istituzioni, per renderle più umane. Credeva nei piccoli passi. Per questo, non fu sorprendente la sua discesa in campo nella politica della sua terra, il Sudtirolo. Non fu stravagante seguire il cammino dell’ex direttore di una testata che santificava la Lotta Continua mentre si accomodava negli scranni del Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano e in quello regionale del Trentino-Alto Adige. Un’assemblea legislativa, un piccolo parlamento, dotato di potere reale in cui si discutevano e si approvavano delibere e leggi per nulla accessorie rispetto alla vita della comunità sudtirolese. A cavallo tra due-tre culture, a cavallo di due-tre confini: era la sua terra, ma per complessità e qualità dei problemi, quel luogo pareva davvero fatto per lui. Sapeva che la strada del reciproco riconoscimento, dello scambio si coltiva fuori dagli orti etnici senza negare le proprie radici, che l'appartenenza – anche in un clima governato dai meccanismi di “riparazione” attivati da Roma nei confronti della minoranza di lingua tedesca dopo le atrocità fasciste e un lungo periodo di insensibilità dello Stato verso le aspirazioni autonomiste – è un processo complesso di sintesi incessante se vuole promettere pace e non ostilità e conflitto altrettanto permanente. Singolare nel suo essere osteggiato dalla “madre patria” e insieme ostracizzato; una realtà difficile che seppe progressivamente dar ragione al paziente ma inarrestabile incedere dei suoi messaggi fino all’exploit delle elezioni europee del 1994. Singolare non violento, profondamente non violento, invocò con sofferenza l’intervento della Nato in Bosnia per far cessare il massacro continuo. Singolare nel disegnare un percorso Alternativo per il suo amato Sudtirolo mentre diveniva leader di livello europeo della cultura politica Verde e si occupava di mille questioni legate alla convivenza, alla conversione ecologica e alla pace in ogni angolo del continente. Langer voleva spiegare, narrare, portava testimonianze, accatastava materiali davanti ai microfoni di quell'aula perché era convinto che prima o poi lo avrebbero compreso, lo avrebbero accettato, e la materia avrebbe ripreso a muoversi. Grazia Barbiero
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